Raccolta “La direzione del vento” di Renata Bocchese

Tante rondini che volano in cielo

Raccolta “La direzione del vento” di Renata Bocchese

Raccolta “La direzione del vento” di Renata Bocchese

 

Condividiamo la raccolta “La direzione del vento” di Renata Bocchese (editore Apogeo), un testo per descrivere il sentire sia di chi è malato sia dei suoi caregiver.

C’è un via vai di rondini che impressiona. Devono esserci dei nidi. Devo trovarli. Non sarà facile, la posizione a letto non permette grandi manovre ma tirandomi su … eccoli … tre sotto una corta grondaia grigia.

Muri scrostati, rovinati dall’umidità, eppure quei tre nidi sono così vivi, così vivaci. Hanno l’impatto di una filastrocca per bambini. Bisognerebbe riprodurli in versione murales pop. Giganteschi nidi a ricoprire muri vuoti e tristi.

Paesaggi colti da un letto d’ospedale. Ultimamente sto collezionando visioni urbane tolte da padiglioni ospedalieri. Paesaggi che la malattia muta: quando stai bene le piante sono più verdi e le nuvole corrono più in fretta. Quando l’infuso terapeutico scende lentamente anche il paesaggio rallenta.

Vorresti essere un designer e modificare paesaggi che impressionano per aridità e il mio gioco è quello di cogliere particolari che rendano vivo un luogo altrimenti lunare.

Se mi sposto più in là, incuriosendo e forse inquietando l’infermiera, vedo rampicanti di rosa canina di una bellezza da concorso. Sono stati quasi certamente dimenticati lì, perché intorno la natura è stata addomesticata dall’eccessivo intervento dell’uomo che ha pulito, tolto: niente foglie da spazzare e rami da potare e regolare. Nel frattempo scopro un altro nido. Bastava solo allungarsi facendo vibrare il macchinario che mi nutre le vene di infusi giallo-oro.

C’è una palazzina quasi gialla, una parte vecchia dell’ospedale, dove le inferriate alle finestre spiegano la natura dei ricoveri interni. Davanti e di lato c’è una specie di giardino poco curato, un tentativo patetico di abbellire luoghi carichi di dolore. Sarebbe bello se ci fosse un orto o tanti piccoli orti con i filari di pomodoro, lattuga, aglio e sedano e poi tutti gli odori, dal rosmarino al timo, dalla maggiorana al basilico. Sarebbe bello se ogni paziente, in questo paesaggio “domestico”, si prendesse cura di un pezzetto di terra, anche solo due fragole. Veder crescere un germoglio, che per fortuna spesso fa quasi tutto da solo, potrebbe non solo cambiare il paesaggio duro di questi luoghi, ma addirittura smuovere paesaggi e passaggi interiori, privati e personali che non aspettano altro.

Anche le analisi del sangue reclamano il loro spazio. Il lungo corridoio per accedere in ambulatorio è accompagnato da una vetrata che delimita un giardinetto interno. È molto curato, troppo. È in vetrina. È spazzolato per bene, un ottimo biglietto da visita per i pazienti che aspettando il turno per le analisi o attardandosi con il cotone premuto sul braccio a tamponare morsi di vampiri mai sazi, senza cellulari in azione, si immergono in questa bolla con l’erba talmente verde e lucida dalla sospetta aria artificiale. Quanto sarebbe bello se un gruppetto di bimbi di una scuola d’infanzia decidesse di fare merenda lì dentro. Piccoli ribelli con il formaggino in una tasca e la merendina nell’altra. Capaci di sporcare ma anche di pulire uno spazio rendendolo carico di vita.

Quando vado dalla nutrizionista, perché la malattia non si mangia solo le ossa, ma spolpa anche la carne che ci sta attorno, trovo un luogo che potrebbe essere poeticamente romantico, se solo fosse appena, appena curato. C’è una pianta che ombreggia un’improbabile panchina. Dovrebbero stare così, abbracciate, panchina di legno e pianta protettiva, lungo il greto di un fiume con due innamorati sopra fusi nell’abbraccio o in un giardino all’inglese vicino a un pergolato di glicine. Invece sono lì, soli, tra un pezzo di ospedale invecchiato male.

Il paesaggio dei luoghi di cura passa inosservato, una parvenza di buona educazione per accogliere chi invece vorrebbe star fuori, sotto le piante o tra le ortensie, anziché dentro corridoi asettici. E ora, che cosa potrebbe pensare di cotanta responsabilità il nostro “paesaggio”? Celare luoghi che creature ammalate vivrebbero come ulteriori ferite o esaltare angoli sui quali il paziente potrebbe soffermarsi quell’attimo prima di iniziare l’avventura terapeutica? In realtà la natura, il paesaggio sanno curare da milioni d’anni. Anche solo un geranio rosso può strappare un sorriso e pochi secondi di autentico benessere che nessuna lista di antidolorifici potrebbe mai eguagliare.

Attraverso di corsa corridoi e scale e con il geranio rosso sotto il braccio scappo fuori sentendomi più viva che mai.

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